venerdì 20 agosto 2021

VIAGGIO TRA RUMORI LONTANI-OSTIA ANTICA IV parte


Di Emiliano Frattaroli
Ostia antica: Viaggio tra rumori lontani.
Schiavi: Povertà e Potere



L’immaginario collettivo è portato a pensare che la classe degli schiavi fosse suddivisa in due ceti, uno di poveri servi che vivevano nei forni e nelle tintorie, oppure attaccati al remo di una nave da guerra e ancora (quella sicuramente più affascinante) nelle arene come gladiatori; e un altro che comprendeva tutti quelli più fortunati che vivevano nelle case dei principi del Foro o dei patrizi.

La cinematografia, non ci ha molto aiutato a comprendere come invece si fosse generata una vera gerarchia all’interno della categoria stessa, e pochi immaginano che alcuni schiavi potevano legalmente acquistare degli schiavi.

In età imperiale erano molteplici le possibilità d’approvvigionamento di schiavi, la principale era rappresentata dalle guerre (anche durante la repubblica, erano continuamente in attività, soprattutto ai confini della regione), e la conseguente vendita dei prigionieri, che destinava centinaia d’uomini alla schiavitù.

C’erano poi: l’importazione di schiavi dai paesi con cui s’intrattenevano scambi commerciali; la schiavitù inflitta come punizione ai contadini non più in grado di pagare tasse e debiti; nonché la vendita o l’abbandono dei neonati (pratica assai diffusa negli strati sociali più bassi della popolazione).

Attività notevolmente remunerativa, era l’allevamento degli schiavi per farne commercio.

I figli generati in cattività erano anch’essi schiavi dello stesso padrone.

La riproduzione naturale e l’allevamento rappresentavano, quindi, le fonti interne dello schiavismo, alle quali si possono aggiungere l’asservimento, di cittadini romani, per debiti (in ogni caso distinto giuridicamente dalla schiavitù) e addirittura la vendita legalizzata di se stessi da parte di cittadini poveri nati liberi.

Gli schiavi erano comprati all’asta o mediante trattativa privata, in alcune piazze specializzate, e trasportati via mare, in Italia; Pozzuoli e soprattutto Roma erano i mercati principali.

Come per tutti i generi alimentari e non che transitavano a Ostia, anche dal mercato degli schiavi, la cittadina tratteneva una consistente quota.

Per tutti i motivi su elencati, nell’Italia Imperiale, a Ostia in particolare, il numero degli schiavi doveva essere notevole.

A Ostia, non vi sono però indizi che autorizzino a pensare a grosse concentrazioni di schiavi, sia nel servizio domestico sia nella produzione.

Le case private, avevano un numero d’ambienti variabili fra cinque e dodici, e in nessuna di loro avrebbe potuto trovare posto, oltre al proprietario e i suoi congiunti, una familia di più di venti elementi al massimo (per familia s’intendeva in origine l’insieme di schiavi posseduti da un singolo dominus): e ciò tenuto conto dell’uso di far dormire i servi in terra, nelle cucine o nei vestiboli, oppure ammassati in stanzette di piccole dimensioni (al pari dei soldati che in numero di otto dormivano in cellae di m.3x3).

Neanche nei luoghi di lavoro, sono stati individuati ambienti di ricovero per gli schiavi, e non c’è traccia degli ergastula, dove erano incatenati per la notte i più riottosi.

Anche se giuridicamente erano tutti privi di diritti e considerati alla stregua di oggetti, sarebbe un errore pensare all’omogeneità del ceto, poiché le singole condizioni socio - economiche erano invece molto diverse.

Quelli che se la passavano peggio erano sicuramente coloro che lavoravano presso i forni, negli horrea (magazzini), nel trasporto fluviale, nelle fulloniche (una sorta di lavanderie) e così via.

La differenza di vita che questo tipo di schiavi avevano rispetto allo strato più povero della plebe, era che quest’ultima godeva dei diritti riservati ai cittadini, ma in compenso gli schiavi ricevevano vitto, alloggio e vestiario dai loro padroni.

Molto diffusa era la pratica da parte dei dominus, di cedere in affitto i loro schiavi, alle officine o ad altri luoghi di lavoro, per poi incamerarne il salario; per una persona poco abbiente questo sistema poteva costituire una fonte di sopravvivenza.

La produzione artigianale realizzata nelle tabernae, a gestione familiare, rendeva la vita degli schiavi utilizzati, un po’ più vicina a quella degli schiavi domestici, anche se in costante stato di oppressione.

A testimonianza di ciò, il ritrovamento di un collare bronzeo che era saldato intorno al collo di uno schiavo, recante l’iscrizione “Tene me ne fugiam, fugio” (tienimi affinché non scappi: sto scappando), ci dice molto della posizione di continua umiliazione in cui erano costretti a vivere.

La società romana aveva elaborato alcuni meccanismi attraverso i quali si offriva, a una ristretta elite schiavile, la possibilità di un miglioramento della propria situazione economica e sociale, garantendo comunque ai padroni un ben preciso vantaggio economico.

Il dominus poteva fornire allo schiavo una somma di denaro (peculium) e in aggiunta o in sostituzione di questa uno spazio e delle attrezzature per iniziare un’attività commerciale o artigianale; se lo schiavo fosse stato particolarmente capace, il padrone poteva porlo come gestore (institor) a capo di un’impresa di sua proprietà, fosse l’amministrazione di un insula, di un’officina, di una ditta di trasporti e così via.

È ovvio che il peculum rimaneva di proprietà del padrone, come l’usufrutto dell’azienda, e tornava a far parte del suo patrimonio alla morte dello schiavo.

Certo è che gli schiavi forniti di peculium e quelli institores formavano un ceto privilegiato, e vivevano notevolmente meglio dei loro compagni, godendo della stima del dominus, avendo buone probabilità, una volta divenuti liberti, di lanciarsi in un’attività autonoma e in una fortunata carriera professionale.

Un’altra categoria relativamente privilegiata era quella degli schiavi domestici, cuochi, camerieri, segretari e anche medici e amministratori con incarichi di fiducia.

All’interno della familia, erano particolarmente ben trattati, e se ne ha conferma dalle iscrizioni tombali, in cui frasi affettuose vengono rivolte ai vernae (ossia gli schiavi nati dall’unione di due servi) o dal legame tra il padrone e la sua schiava (fatto comunissimo e normalmente accettato).

Finora si è parlato degli schiavi privati, ma esistevano anche coloro che appartenevano alla struttura pubblica. All’interno di questa vi erano schiavi delle singole città, schiavi dello Stato e schiavi imperiali.

A Ostia la familia publica, composta dagli schiavi e dai liberti della colonia, disponeva di una propria associazione al pari delle corporazioni di mestiere.

Gli schiavi pubblici erano impiegati soprattutto nei servizi amministrativi e finanziari, sapevano leggere e scrivere e ricoprivano mansioni con un sia pur limitato contenuto intellettuale.

Il livello più alto in assoluto nella categoria, era ricoperto dagli schiavi imperiali.

Essi raggiungevano un potere, talvolta notevolissimo, non solo nella gestione del Palazzo e nella cura del patrimonio e dei possedimenti imperiali, ma anche nell’amministrazione dello Stato.

I Principi, nella fondazione e nel consolidamento del loro potere personale, avevano bisogno di una casta di funzionari fedelissimi, il cui destino fosse legato indissolubilmente al proprio: essi fecero pertanto dei propri schiavi e liberti la spina dorsale del proprio apparato burocratico.

Gli schiavi imperiali erano autorizzati ad agire come cittadini liberi, potevano possedere schiavi e liberarli, garantire lo spazio per la sepoltura dei loro liberti e liberte.

Uno schiavo imperiale, Crisero, sposò una donna di condizione libera.

Nell’Italia dell’età imperiale, il numero dei liberti era elevatissimo e in continua crescita: in alcune città e regioni si è calcolato che il numero d’iscrizioni relative ai liberti oscillasse tra il 30% e il 75% del totale.

La pratica dell’affrancamento (manumissio) era esplicitamente incoraggiata dallo Stato e promossa dalla classe dirigente romana.

Le motivazioni non vanno ricercate esclusivamente in comportamenti di carattere umanitario, ma soprattutto la creazione della figura del liberto era stata la risposta alla contraddizione dello schiavo fornito di peculium.

L’anomalia era evidente, in quanto lo schiavo, pur con una limitata autonomia economica, dipendeva esclusivamente dal suo padrone, che era chiamato a rispondere a ogni controversia economica e legale che scaturiva dall’attività dello schiavo e dai suoi rapporti con terzi.

Di qui l’esigenza di un riconoscimento di una figura intermedia, quella, appunto, del liberto, che si strutturò lentamente all’interno della legislazione, venendo incontro contemporaneamente alle aspettative di promozione sociale degli schiavi più intelligenti e attivi, nonché agli interessi del ceto proprietario.

Si può affermare che gli schiavi liberati, divenivano cittadini romani con diritti civili ridotti: non potevano servire nelle legioni, soltanto in alcuni corpi ausiliari dell’esercito o nella flotta, e soprattutto non potevano eleggere i magistrati municipali e statali, né essere eletti alle cariche pubbliche (a Ostia, molti liberti, ottennero il riconoscimento di decurione onorario, privo di poteri effettivi).

Salvo che il patrono (l’ex padrone) non stabilisse espressamente il contrario, all’atto dell’emancipazione, veniva lasciata al liberto la proprietà del suo peculio, se n’aveva; ma questo vantaggio era bilanciato da una pesante serie di limitazioni.

Il liberto, era vincolato a mantenere, entro le proprie possibilità, il patrono che si fosse venuto a trovare in difficoltà, e doveva comunque lasciare in eredità, allo stesso, una parte, fissata in precedenza, dei propri beni.

Più in generale la sua posizione nei confronti del patrono era definita da un complesso d’obblighi, all’interno del quale l’aspetto morale (il dovere dell’obsequium: e la legge puniva gravemente i liberti che si macchiassero di “ingratitudine”) si saldava indissolubilmente con l’aspetto economico.

Il liberto privo di mezzi, conservava, in un primo momento, il diritto a essere mantenuto dal patrono, come quando era un suo schiavo: ma appena cominciava a esercitare un mestiere, doveva fornire all’ex padrone un numero di giornate lavorative (operae) stabilito al momento della manomissione, o il corrispettivo in danaro (pretium).

Una variante di quest’ingegnoso sistema di sfruttamento, che garantiva al patrono una rendita immune da ogni detrazione di spesa, si aveva quando il patrono “affittava” a un terzo il lavoro del liberto, esattamente come avveniva per il lavoro dello schiavo.

Tuttavia l’istituzione dei liberti nasceva anche dalla volontà di offrire agli schiavi una sia pur lontana possibilità di riscatto sociale, al fine di attenuare i fermenti di ribellione che sempre serpeggiavano fra loro.

Per alcuni liberti il miraggio si trasformava in realtà e divenivano i più leali sostegni del sistema politico vigente, grazie anche alla creazione di speciali sacerdozi riservati a loro.

I liberti che riuscivano a farsi strada avevano spesso alle spalle una storia comune.

Provenivano dalla familia di personaggi ricchi e influenti in campo commerciale e finanziario; già come schiavi si erano fatti notare per la loro intraprendenza ed erano stati nominati institores in un ramo dell’attività del padrone.

Una volta affrancati, la loro posizione si era rafforzata ed essi si trasformarono in una via di mezzo fra gli agenti prestanome e i soci del loro patrono, dovuto magari a un iniziale prestito da parte di quest’ultimo.

Gradualmente, pur mantenendo un doveroso atteggiamento d’omaggio verso il patrono, si erano lanciati nel commercio con un grado sempre maggiore d’autonomia e con una spregiudicatezza da nuovi ricchi, favorita anche dalla totale assenza di quegli impacci di tipo ideologico – morale che impediva a molti membri delle classi dirigenti tradizionali di mostrarsi troppo apertamente interessati ai profitti derivanti dalla produzione o dai traffici.

Le iscrizioni funerarie gettano abbondante luce sul forte legame che i liberti mantenevano con i rispettivi patroni.

La ricompensa per il liberto che avesse tenuto fede ai vincoli di lealtà e di gratitudine verso l’autore della propria emancipazione, era tra le più importanti per la mentalità religiosa dei Romani: l’accesso alla tomba di famiglia del patrono.

Al contrario la mancanza di riconoscenza era esplicitamente segnalata, talvolta con una certa violenza verbale.

Un eclatante esempio è di Caio Voltidio Felicissimo che accoglie nella propria tomba gli ex schiavi “ Eccetto il mio abominevole liberto Ilario, che non abbia accesso a questo sepolcro”: possiamo supporre che Ilario avesse mancato al dovere della obsequium o che si fossero perse le sue tracce dopo l’affrancamento.

Un’altra iscrizione ci narra che il liberto Quinto Quintilio Zotico, sposò la figlia del suo patrono, fatto particolarmente raro, che denota la realtà socialmente aperta e avanzata d’Ostia rispetto al resto del mondo romano, secondo il quale un liberto che aspirasse al matrimonio con l’ex padrona, con la figlia o con la nipote del patrono, fosse di solito punito duramente, persino con i lavori forzati (mentre il matrimonio fra il patrono e una sua liberta era legittimo e molto frequente).


Emiliano Frattaroli

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